La scrittrice femminista è morta ieri all’età di 51 anni dopo una lunga battaglia contro un tumore al quarto stadio.
Michela Murgia sapeva quale sarebbe stato il suo destino e lo aveva detto anche lo scorso maggio quando aveva annunciato il ritorno del suo tumore: “Dal quarto stadio non si torna indietro“. La scrittrice femminista sapeva che il cancro non le avrebbe lasciato scampo, al contrario di quando le era stato diagnosticato la prima volta, nel 2014.
Nove anni fa il tumore era al polmone e la Murgia riuscì a curarlo. Quello più recente, invece, ha attaccato il suo rene, propagandosi ai polmoni, alle ossa e al cervello. La terapia con cui ha cercato di sopravvivere era a base di biofarmaci, come aveva confermato lei stessa: “Non attacca la malattia, stimola la risposta del sistema immunitario. L’obiettivo non è sradicare il male, è tardi, ma guadagnare tempo“.
Nessun rimpianto
Michela Murgia non aveva paura di morire, nonostante tutto quello che stava passando. “Ho cinquant’anni – aveva detto – ma ho vissuto dieci vite. Me ne andrò piena di ricordi. Mi ritengo molto fortunata. Ho incontrato un sacco di persone meravigliose“. Gli ultimi mesi, invece che viverli nel rimpianto, la scrittrice li ha passati trascorrendo del tempo con i suoi amici e familiari più cari.
La sua lotta, nell’ultimo periodo della sua vita, non è stata contro il tumore ma bensì contro le istituzioni. Michela Murgia ha speso ogni energia per continuare a spingere per il riconoscimento ed i diritti delle coppie omosessuali e queer.
“Spero solo di morire quando Giorgia Meloni non sarà più presidente del Consiglio – aveva commentato -. Perché il suo è un governo fascista. Quando avevo vent’anni ci chiedevamo se saremmo morti democristiani. Non importa se non avrò più molto tempo: l’importante per me ora è non morire fascista“.